Comunicazione Ipnotica
Terminologie attivanti e tecniche ipnotiche
Quando dobbiamo parlare con un paziente o un cliente, esiste un modo per rafforzare le immagini che andremo a creare nella sua mente?
Certo che si!
Possiamo rafforzare le immagini che si vanno a formare nella mente dei nostri interlocutori,
o anche nella nostra mente, con l’uso di una terminologia specifica, la quale renderà la nostra comunicazione molto più persuasiva.
Quando parliamo di comunicazione persuasiva intendiamo un tipo di comunicazione tesa ad avere un certo impatto sull’interlocutore: in questo senso la pubblicità stessa può essere un
valido esempio di comunicazione persuasiva.
Terminologie Attivanti
Alcuni aspetti di questo tipo di comunicazione si basano su terminologie denominate “attivanti”,
del tipo “Ora che state leggendo queste parole, potete provare interesse per quello che stiamo dicendo”.
In questo modo, inserendo nelle frasi delle istruzioni di processo (provare interesse), suggerisco uno stato d’animo in chi legge.
Nella frase: “Ti è mai capitato di essere interessato a…”, c’è un comando nascosto che fa attivare uno stato di attenzione.
I termini attivanti servono appunto ad attivare alcune emozioni, alcuni stati d’animo.
Una pubblicità potrebbe contenere frasi del tipo “Non è necessario decidere ora…”, il termine decidere, evoca proprio lo stato d’animo, la sensazione di decidere ora.
Anche il termine: “Non c’è bisogno di affrettarsi a…”, potrebbe essere un termine attivante.
Oltre ai termini attivanti, per ottenere una comunicazione di tipo ipnotico possiamo usare dei comandi nascosti.
Questi comandi sono delle frasi contenute all’interno di altre frasi.
Facciamo un esempio “Ad un mio amico capitava di esser molto curioso”.
La parola curioso, anche se metaforicamente dirottata su un’altra persona, evoca comunque nell'ascoltatore la sensazione di curiosità.
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Comandi nascosti
Questi comandi nascosti funzionano efficacemente perché sono “invisibili”, agiscono in modo inconscio, proprio per questo non attivano le opportune resistenze e permettono alle persone di rispondere alle domande restando sotto il livello di consapevolezza.
L’effetto che se ne ricava è di guidare l’altra persona nella direzione in cui vogliamo andare e questo fenomeno si verifica in ogni caso, a prescindere dal fatto che la persona stia ascoltando consciamente o meno.
Ricalco
Vicino ai termini attivanti è bene usare il ricalco: in questo modo si riesce a formulare meglio una comunicazione con forte impatto emotivo.
Facciamo subito un esempio: immaginiamo di trovarci ad una lezione dove il docente è lì per spiegare alcuni interessanti argomenti.
Una frase di impatto che il docente in questione potrebbe usare, contenente sia il ricalco che una terminologia attivante potrebbe essere: “Mentre mi ascoltate, potete capire quello che stiamo dicendo”.
È palese che lo stiamo ascoltando, quindi è bene usare questo truismo, ovvero questa verità oggettiva, per ricalcare uno stato d’animo, certo che se il docente avesse detto “Capite quello che sto dicendo?” non sarebbe stato ugualmente efficace.
La parola “mentre…” sottolinea quello che stiamo facendo e crea un campo affermativo, il quale crea rapport.
Associato al ricalco e ai termini attivanti si possono anche usare delle generalizzazioni: non possiamo certamente sapere quello che la persona davanti a noi pensa, sente o percepisce in modo particolare, ma possiamo ricalcarla lo stesso, usando delle verità oggettive e alcune generalizzazioni.
Facciamo un esempio: “Mentre sentite la temperatura della stanza….”, questa frase non contiene alcuna informazione riguardando il caldo o il freddo, ma generalizza sulla temperatura nel qui ed ora.
I pubblicitari pongono molta attenzione ad ogni singola parola,
perché ogni parola può essere attivante
ed aprire un modulo emozionale specifico.
Anche le frasi usate in negativo possono risultare attivanti, se diciamo “Tu non puoi essere curioso”, comunque il comando implicito resta, suscitando lo stato emotivo di curiosità.
Quando possiamo usare queste frasi?
Quando, ad esempio, abbiamo a che fare con persone che dicono “Io non posso sentirmi felice”.
Possiamo ricalcarle dicendo: “Capisco come tu non possa sentirti felice, capisco come tu non possa provare questo stato d’animo”, intanto stiamo proprio suggerendo inconsciamente al nostro interlocutore quello stato d’animo di felicità che lui si sta negando.
A poco a poco il nostro interlocutore entrerà in uno stato d’animo differente; una, due suggestioni ripetute per un po’ di tempo, danno origine allo stato d’animo desiderato, in questo caso la felicità.
Un altro esempio lo possiamo avere con la frase “Ti è mai capitato di… essere in un posto meraviglioso e…” queste parole creano subito uno stato emozionale.
Mentre pronunciamo questa frase il nostro interlocutore va ad attingere ai suoi ricordi, di quando è stato in un posto meraviglioso e, tornando a rivivere quelle sensazioni, perde il contatto con il presente, entra con l’immaginazione in uno stato d’animo diverso.
Per capire il senso di quanto detto, la persona deve vivere in qualche modo lo stato emozionale abbinato a quella frase.
Non è un caso che nei corsi di vendita si insiste molto nell’insegnare a porre le domande con parole giuste.
I venditori sanno che tra i peggiori modi di cominciare un discorso ci sono le parole a valenza negativa.
Parole a valenza negativa
Tra queste rientrano, appunto, tutte quelle parole che fanno iniziare male la comunicazione, ne cito alcune:
Le rubo soltanto un minuto: il termine “rubo” dà senso di perdita di tempo e ci colloca in una dimensione di inferiorità. Solo chi non è importante ci fa perdere tempo. Il nostro interlocutore, nel momento in cui sente dire una parola del genere, inconsapevolmente ne avverte la suggestione negativa.
Non l’annoierò: dentro di noi già c’è il sospetto che quanto abbiamo da dire sia poco importante e paradossalmente questa preoccupazione è trasmessa nella comunicazione attraverso la valenza negativa suggestiva, che richiama, nella scena mentale della persona che ascolta, proprio quella noia che noi vorremmo evitare.
Non vorrei disturbare: anche qui richiamiamo il senso di disturbo che vorremo evitare.
Ha un momento da dedicarmi?: ci poniamo qui in una situazione psicologica di inferiorità, definendoci poco degni sia di attenzione che del tempo necessario per comunicare qualche cosa.
Disturbo?: se la nostra presenza è gradita non c’è motivo di disturbo.
Non vorrei che pensasse che io sia qui per ingannarla: siamo davanti alla cosiddetta coda di paglia.
Come possiamo ben immaginare, queste regole nella conduzione di un colloquio non sono ristrette al solo mondo del venditore, ma anche nell’ambito della comunicazione interpersonale e nella comunicazione intrapsichica (con noi stessi).
È bene usare parole positive, che facciano emergere dall’inconscio emozioni gradevoli e permettano anche a noi di esser più persuasivi nella comunicazione.
Precedentemente abbiamo detto che il “perché” in una comunicazione efficace non dovrebbe essere mai usato, ma non è sempre così; infatti, in alcune occasioni è possibile, anzi consigliato, usare il “perché”.
Quando?
Quando vogliamo approfondire stati emotivi positivi.
Ad esempio: “Ti voglio bene, perché…”, oppure “Sono felice di assumerti perché…”, in questo modo la mente andrà a cercare tutte le risposte che servono ma, diversamente da prima, saranno risposte che approfondiranno stati d’animo positivi.
Il perchè
Il perché è un tipo di richiesta che può costituire, a volte, una potenziale barriera per una comunicazione efficace; ad esempio domande del tipo:
“Perché non mangi?”,
“Perché sei arrabbiato?”,
“Perché l’hai fatto?”
soprattutto se accompagnate da un certo tono, possono risultare arroganti e generare un comportamento difensivo, oltre che “aprire” una serie infinita di risposte.
Diverso è un approccio del tipo:
“…riguardo a cosa…?”
“…in che senso ?”
“…cosa ti impedisce di…?”
“…cosa succederebbe se…?”
sono domande chiuse, che portano l’interlocutore a ripensare alla propria esperienza e ad esprimere con maggior accuratezza ciò che vuole dire.
Cominciamo allora a fare un po’ di pratica, iniziamo da subito ad evitare alcune parole dal nostro vocabolario quotidiano.
Le parole in questione sono: MA, PERÒ, COMUNQUE, perché vanno a contraddire quanto detto prima.
Ad esempio: “Il tuo lavoro è fatto bene, PERÒ…”.
E, ED È PER QUESTO CHE….
Per evitare di contraddirci rimpiazziamoli con congiunzioni del tipo E, ED È PER QUESTO CHE….
Esempio: “Il tuo lavoro è fatto bene E.. ti invito ad approfondire alcune competenze in modo da essere più preparato per affrontare il consiglio direttivo”.
È bene anche eliminare l’uso continuo del pronome IO: denuncia un ego infantile, da persona insicura che cerca di difendersi, esaltando la propria identità per compensazione.
L’uso di questo pronome crea una sorta di barriera invisibile che ci allontana dagli altri, crea disagio e a volte antipatia e non permette il corretto svolgimento dell’ascolto empatico che abbiamo trattato precedentemente.
Il cervello non capisce le negazioni
Se dovessi dire: “non pensare assolutamente ad una giraffa rossa”, nel momento in cui si pronuncia la frase “giraffa rossa” la nostra mente crea proprio quell’immagine; abbiamo quindi capito che la prima condizione importante per trasformare un pensiero da negativo a positivo è formulare sempre in positivo l’obiettivo, in quanto il cervello non percepisce le negazioni.
Se foste su una scala e qualcuno vi dicesse “non pensare che puoi cadere mi raccomando”, con ogni probabilità otterrebbe l’effetto contrario, in quanto per non pensare di cadere il cervello deve pensare prima di cadere e poi ad annullare questa immagine.
Queste operazioni portano in genere al risultato opposto a quello desiderato; ugualmente una relazione ricca di parole come “difficoltà”, “sforzi”, “problematiche”, “carenze”, “sacrifici” ecc. creerà col tempo sensazioni di disagio, insicurezza, e altre suggestioni negative.
È facile prevedere in quale stato d’animo si troveranno le persone dopo un po’ di tempo: proveranno sensazioni di sconforto, vedranno la loro attività futura in una luce grigia e cupa, con la prospettiva di sacrifici, sforzi ed incertezze.
Proviamo a vedere come possiamo contrastare queste percezioni negative, introducendo nella conduzione del colloquio alcune accortezze, tra le quali:
Utilizzare il NOI: La frase “Il progetto che vi prospetto si suddivide…” diventerà “Il progetto che ora vedremo insieme si suddivide…”
Il tu e l’io creano subito la tendenza al conflitto, basti pensare alle frasi che si dicono durante le liti familiari.
Quando non c’è armonia in famiglia, parlando dei figli si usa dire “È tuo figlio”; quando invece tra moglie e marito c’è armonia, si è soliti dire “Nostro figlio”
Usare parole a valenza suggestiva positiva:Sono tutte quelle parole che presumono sempre una soluzione.
Usare l’indicativo presente e futuro: “Ti porterei in vacanza domani” può diventare “ti porterò in vacanza domani”
Molte aziende, soprattutto quelle che danno molta importanza al “come” vengono espresse determinate situazioni nelle relazioni scritte, dovendo evidenziare situazioni problematiche, cambiano l’uso di varie parole.
Così il termine “problemi” è sostituito spesso da “situazioni”.
La frase “Sacrificato a cercare aiuto” può esser mutata in “Seguendo personalmente le fasi di questa fornitura…” ed il rinomato “Ritardo alla consegna” connotato positivamente diventa “Punte di carichi di lavoro in seguito al successo ottenuto dai nostri prodotti”.
Ancora, è meglio non dire “sono lento”, ma dire “non sono un velocista”, così si dimostra che conosciamo i nostri limiti, e li trasformiamo in capacità di autocontrollo, (in pratica anche qui si parte da un lato negativo e lo si
trasforma in positivo).
Esistono parole che emotivamente sono più cariche di altre, anche se enfatizzano lo stesso concetto: ad esempio, se ad una persona dico “Non credo assolutamente a cosa stai dicendo” o le dico “Sei un bugiardo”, in pratica esprimo la stessa cosa, ma da un punto di vista emozionale totalmente differente.
Dire “Mi spiace di aver fatto tardi, ma ho avuto un contrattempo che…”, è sempre meglio che dire: “Non puoi capire che razza di sciagura mi è capitata”.
Le persone tendono ad enfatizzare molto di più le parole negative che quelle positive, a volte anche quando devono descrivere eventi bellissimi, capita che usano terminologie negative.
Facciamo un esempio: a quanti è capitato di domandare ad un amico come ha passato il week end ed ha ottenuto la risposta “È stato bello! Da paura!”, oppure “Bello di brutto!”?
Abbiamo poche parole per descrivere cose molto belle, questo ci rende molto più esperti nello “star male” che nell’esser motivati e nel sentirci bene e, linguisticamente parlando, quante più parole conosciamo per descrivere
un evento, tanto meglio lo conosciamo.
Quante più parole conosciamo per descrivere un evento, tanto meglio lo conosciamo.
Proposte positive e “non parole”
Molte persone che si occupano di marketing e di pubblicità hanno capito che non possono costruire il loro successo partendo da motivazioni negative, poiché ciò va contro la natura umana.
Essi hanno successo quando sono sicuri di avere una proposta positiva e di prospettarla con linguaggio positivo.
Non sono solo le parole a poter mettere in crisi la nostra comunicazione, ma anche le non parole.
Mi riferisco in questo caso ai vari “Ahhm”, “Uhmm”, “…evidentemente”, Ehmm”, “…praticamente”, “…infatti”, ecc.
Sono suoni che si producono quando siamo spaventati dal vuoto che lasciano le parole e tendiamo a colmarlo con delle non parole, risultando sgradevoli e creando distrazione in chi ascolta (Sansavini, 2000).
Per chi ha necessità di parlare in pubblico e volesse eliminare questa abitudine, consiglio di esercitarsi a frapporre, alle non parole, delle pause, magari aiutandosi le prime volte con un registratore.
Se vuoi approfondire l’argomento, ti aspetto al mio prossimo corso dal vivo che periodicamente sviluppo attraverso la mia azienda FormaeMentis.
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